Lettera ad uno, cento, mille, smart worker di paese

Ho iniziato a pensare a questa lettera dopo che qualche sera fa, chiacchierando con un giovane professionista mio conterraneo e “smart worker” mi sono messo a riflettere su quante ragazze e quanti ragazzi passano la loro esistenza in paesi più o meno piccoli, lavorando da remoto e praticando il lavoro smart, che in molti casi si potrebbe meglio chiamare “lavoro da remoto”. Questa mia lettera è per te, “…worker di paese” che trascorri la tua esistenza in uno dei centinaia di comuni sotto i cinquemila abitanti che rendono bella e ricca e complicata la nostra Italia.

Quando nel 2010 aprii la mia partita iva, me ne stavo a Caselle in Pittari per la maggior parte del tempo pur lavorando con clienti che operavano a km di distanza. Ero un remote worker, ancora poco smart!

Con gli anni, ne abbiamo lette e ascoltate tante e tante sono le parole con le quali abbiamo accompagnato l’appellativo di “worker”. Non è questo il punto, le parole mi affascinano e mi piace anche leggere le sfumature che ci divertiamo a dipingere con esse.

Ti sto scrivendo questa lettera per raccontarti un pezzo della mia storia, ma anche per lasciarti qualche domanda sulla quale poter pensare la relazione con il lavoro e il luogo in cui vivi.

La mia prima esigenza è stata la sostenibilità economica, lavorare da remoto mi permetteva e mi permette ancora oggi in molti casi di poter drenare risorse vitali per me e la mia famiglia nella mia comunità, vivere in un paese di meno di duemila anime e viverci come piace a me.

Con il passare del tempo è maturata in me anche un’altra esigenza, un altro bisogno, una sorta di pulsione, un senso di responsabilità, un richiamo. Insomma, sentivo di dover trovare un modo per mettere un po’ delle mie esperienze al servizio della terra nella quale sono nato e cresciuto e nella quale, grazie al web e allo smart working posso vivere.

Ho iniziato a chiedermi come le mie esperienze potessero essere messe in relazione con le aziende che operano nel mio stesso territorio, Come, una piccola porzione del mio tempo potesse impattare sulle sorti della mia comunità. Come avrei potuto attivare nuovi processi di valore mettendo a disposizione le competenze e quelle di altri. Cosa avrei potuto fare per non essere solo un pezzettino piccolo di un mercato globale in cui a tratti mi sentivo solo un numero? Come avrei potuto portare le mie skills e agire localmente pur mantenendo una mentalità globale e una visione del mondo aperta e inclusiva?

Ho accettato la sfida quando pensando al futuro delle mie figlie mi sono detto “accetterò di vederle crescere in una comunità che non sa nemmeno che lavoro fa il loro papà?”

La rete, internet, ce lo siamo detti e ce lo ripetiamo, sta cambiando e cambierà ancora le nostre vite, ma abbiamo il dovere di interpretare e orientare tutto questo. Una delle cose che ho imparato è che questo percorso possiamo renderlo più interessante aprendo le “porte delle nostre professioni alle nostre comunità”. Creando condizioni per nuovi posti di lavoro. Inventando professioni che prima non esistevano. Ibridando le competenze che stiamo maturando con necessità e bisogni che emergono dai tanti “locali” di questo “globale”.

Il nostro saper fare dovrà misurarsi con la nostra capacità di saper costruire un mondo, il nostro e quello dei nostri figli, in cui donne e uomini si evolvano nella loro umanità, grazie anche alla tecnologia, ma sopratutto grazie alla propria capacità creativa di immaginare e determinare i luoghi dove risiedere e dove Vivere, contribuendo al loro senso e alla loro sorte.

Buon lavoro e buon cammino!