Dall’inizio della diffusione del Covid19 ho una domanda che mi ronza nella testa. Dopo di questa tempesta continueremo a dare lo stesso valore alla terra che ci serve per produrre il cibo che mangiamo?
Naturalmente non ho una risposta ma provo a ragionarci sopra. E ragionandoci questa mattina mi sono imbattuto in questo cartello. Un messaggio stanco di esistere, quello sembra.
Mio nonno da piccolo mi diceva sempre “Chi lo sa che cosa ne farete di queste terre una volta che non ci saremo più noi”
La terra può darti da mangiare, a patto che tu la prendi in considerazione e la rispetti. Non solo coltivandola ma anche costruendo una relazione con lei (lei non essa).
Troppo spesso non prendiamo in considerazione la spina dorsale del nostro paese. L’Appennino.
Gran parte del nostro Appennino conserva pratiche di autoproduzione secolarizzate che fanno fatica a rinnovarsi, ma che negli ultimi dieci anni hanno conquistato prima il cuore, poi la testa e poi anche le braccia e gli occhi di molti giovani che hanno voglia di sperimentare e vivere modelli di vita diversi da quelli proposti da città e periferie densamente popolate italiane ed europee.
Non voglio generalizzare, per questo ti chiedo di contestualizzare la mia riflessione in quei territori che non hanno una vocazione agricola intensiva, almeno non per la maggior parte delle colture e non nella visione standardizzata.
La terra è un bene che in molti casi non ha solo un valore economico, ha un valore affettivo, legato alla famiglia ed alle storie delle persone. Mi chiedo cosa ne faremo di questo valore? Ci interessa perché ci permetterà di produrre il cibo? (ammesso che sapremo lavorarci).
Quale terra promessa lasceremo ai nostri figli?
Ho provato a dare una risposta a mio nonno attivando un po’ di teste, tutte diverse tra loro, ma tutte con qualcosa di interessante da condividere rispetto a questo tema. Ne è venuto fuori un post-agorà
Antonio Pellegrino: Per rispondere a tuo nonno “U primu accatta, u secundu manteni, u terzu vinni” (Il primo compra, il secondo mantiene e il terzo vende).
Questa forse è la dinamica dall’unità d’Italia ad oggi. Il proverbio inevitabilmente si può riferire allo sviluppo in questo periodo, delle dinamiche di mobilità sociale ed economica. Per il resto, il punto è che c’è chi vende senza averne il bisogno economico, oppure per altri investimenti.
La terra è vista come un oggetto, dove però non c’è la prima e la seconda mano. Una terra è un usato. Ma non nelle logiche di qualsiasi altra cosa. Per questo conta di capitale economico e mai di quello affettivo. La terra è una relazione. La proprietà privata è un’altra cosa
Michele Sica Bosconauta: La prima impressione è stata quella di una croce. Una croce vestita della nostra superbia del possesso della terra, una croce spoglia della volontà di essere posseduto dalla stessa terra.
La via crucis della montagna, una processione antica, una processione senza più gente, dove la croce è rimasta sola, in attesa
Vincenzo Moretti: La storia è davvero molto bella, però ti confesso che io con la voce eredità non vado sempre d’accordo, non mi piace il vincolo che essa comporta, direi che lo trovo ingiusto, e mi spiego con un esempio che riguarda la mia famiglia.
I nostri genitori ci hanno lasciato una casa. Hanno lavorato duramente per costruirla, era il loro orgoglio. Noi siamo in quattro, nessuno vive nel posto dove sta la casa, obiettivamente la scelta più razionale è venderla, eppure quando ci penso un poco mi sento in colpa, e credo che sarà ancora peggio quando riusciremo a venderla.
In realtà non ho nessuna colpa, la scelta di costruire la casa è stata la loro non la mia, naturalmente il loro resterà un dono prezioso e un ricordo indimenticabile, ma la scelta che hanno fatto loro non può condizionare la mia vita, mi dispiace ma non ha senso, nonostante i miei sensi di colpa.
Ciascuno di noi può lasciare qualcosa in eredità, ma deve essere questo, un dono, quello che succede dopo non è un problema di chi lascia ma di chi eredita, io avrei risposto questo a tuo nonno.
Antonio Torre: E’ una domanda che mi sono posto anche io spesso e, a dire il vero, per me rappresenta un pò un nervo scoperto. In questi anni ho imparato si a rispettarla ed a riconoscerne il valore ma non sono invece riuscito ad “integrarla”, per le più svariate ragioni, nella mia vita. Se devo provare ad immaginare un futuro per lei (e per noi) ne faccio un discorso di collettività, di comunità, richiamando un pò il concetto di Open Source dal mondo informatico, ma dobbiamo imparare ad abbattere un bel pò di barriere insite in noi e nella nostra società.
Pierpaolo Salamone: Il destino della terra è funzione di cultura e di scelte. Le scelte sono soggettive, la cultura contadina, invece, si alimenta con il racconto, ma soprattutto con la pratica. Fin quando c’è cultura ci sarà possibilità di scegliere cosa fare della propria terra ereditata, altrimenti l’unica scelta sarà abbandonarla o, se fortunati, venderla.
Annalena D’auria: I ricordi più belli della mia infanzia sono associati ai campi coltivati dai miei nonni, ora curati da mia madre. Se dovessi vedere quel triste annuncio di vendita sulla mia terra mi sentirei privata di una parte importante della mia vita. Mi rendo conto, però, che solo chi ha avuto la possibilità di vivere a contatto con la terra può percepire e condividere il suo valore. Purtroppo oggi mancano le forze, manca la forza di curarlo un campo e la forza di credere che da esso derivi il nostro futuro.
Giuseppe Orefice: Ci sono due parole che mi vengono in mente per rispondere alla tua domanda: “relazione” e “bisogno” e questa volta, queste due parole remano in direzione opposta.
L’emergenza che viviamo e che ci ha visti chiusi nelle nostre case ha spezzato alcuni fili della nostra relazione con la terra, fili che erano già fragilissimi: il cibo che viene sempre di più solo da supermercati e GDO, l’impossibilità di frequentare le aree rurali in passato prese di mira da un turismo fatto di pranzi e bivacchi in questa stagione primaverile, ma che per molti abitanti delle città e delle pianure era comunque un’occasione di relazione, un’occasione di meraviglia. Meraviglia invece di cui sono ben consapevoli le genti d’appennino, ma una meraviglia che ora può essere solo guardata dagli oblò delle nostre scatole di muratura. Altri fili spezzati.
Ma l’isolamento fa crescere anche il bisogno, il bisogno di ritmi, odori, atmosfere che sono dentro ogni essere umano e che sono nella terra. Se questo bisogno diventerà urgente per tanti, così come lo era già stato per molti giovani, per ragioni diverse negli ultimi 10 anni, quei fili si potranno riallacciare, ma sarà un lavoro duro, meticoloso, sfibrante, ma un lavoro necessario.
Ivan Di Palma: Qualche mese orsono davanti casa campeggiò per qualche settimana la stessa scritta su un grosso uliveto. Un grosso uliveto circa 650 piante.. e io ero tentato di fare la follia.. si la follia perché la terra oggi, se si va in banca a chiedere soldi, é considerato un investimento improduttivo. Si proprio così. Il direttore ebbe a dire..si ok ma é improduttivo. Il mio ristorante invece era produttivo… fatto stà che l’uliveto é stato comprato da una grossa società del milanese..per via di un mediatore del posto..lo stesso che ha fatto impoverire le nostre montagne dando due soldi ai proprietari dei terreni dove sorgono le pale eoliche a Brienza. Cosa voglio dire? Voglio dire che quell’uliveto finché vivrò qui sarà anche mio. Ogni mattina mi alzo e vado nella sala del ristorante. Albeggia..e il sole comincia a baciare ogni singolo albero. Io bevo il caffè. E osservo. Ogni mattina. In questa quarantena ho impiantato un uliveto di 250 piante e una nuova vigna (dopo tre anni di ricerca e tentativi con Mimmo Calicchio). Mi rallegra pensare che non é né mio né dei miei figli. Ma di tutti quelli che lo vivranno. Allo stesso modo in cui i figli non sono né i miei né tantomeno della madre che li ha partoriti..ma.sono e saranno del mondo che li vorrà e di cui si fideranno..avrei voluto scrivere qualcosa di più pensato e razionale. Invece di getto mi viene di ripetere che il tempo non é nostro. Come non é solo nostro il mondo.
Carmine Farnetano: In questo momento, credo di essere disforico e vedo solo asimmetrie: la guerra invocata mi divide. Chi ha dichiarato la guerra, a chi? Ed è in questa separazione che leggo la tua domanda: continueremo a dare lo stesso valore alla terra? Ho letto i contributi dei nostri amici e mi sento vicino al pensiero di Vincenzo: forse a causa del mio mestiere, forse grazie alla mia educazione, o forse perché è solo questione di cellule nervose a me la proprietà, la mia proprietà, appare come un “vincolo”. E quando sento parlare di eredità, questo sicuramente per il mio lavoro, provo nausea nel senso più sartriano della parola. Ma vengo alla tua domanda che non necessariamente deve valorizzare il mio punto di vista. Il valore della terra è economico: le altre modalità afferiscono tutte al livello relazionale che è il fondamento del valore economico. Non ci giriamo intorno. Allora, provo a tradurre la tua domanda: quanto le relazioni tenderanno a conservare la terra? Quanto a negarla? L’epidemia, da quello che vedo – che ho la capacità di vedere – ha minato le basi fiduciarie: siamo tutti possibili untori, in primo luogo, ma ancora di più: i politici hanno perso credibilità, l’informazione è inficiata dalle fake news, i medici muoiono contagiati (orrore!!!), gli scienziati – con il loro linguaggio criptico – litigano in televisione. Insomma, il Papa si è esposto alle intemperie per testimoniare Dio, con un gesto che ha commosso tutti, anche me. Ma la questione resta aperta: chi è in grado oggi di affermare un valore senza essere smentito dopo un secondo? Grazie a quale tipo di relazione, a partire da noi due, è possibile riconoscere il valore della terra? Mi dispiace molto, amico mio, e spero di riuscire a modificare il mio punto di vista, ma oggi posso solo dire che il virus è stato peggio del “formidabil monte, sterminator Vesevo”. Non vedo Ginestre e non vedo “Social catene”. E quando manca la social catena, nessuno vuole il Vesuvio e la terra si fa estranea
Maurizio Mastrogiovanni: Premesso che la terra non è nostra, noi al più l’abbiamo ereditata dai ns padri che a loro volta è stata da loro ereditata o comprata.
Oggi è una follia solo pensare di comprare un “pezzo di terra” da coltivo.
Io sono stato allevato dalla terra, mio padre era un contadino, mia madre una bracciante agricola.
Ho trascorso la mia infanzia, la mia adolescenza e parte della mia giovinezza “nella terra”, non la coltivavo, a quello pensavano i miei, io ero preposto ad accudirne i frutti che sempre ci donava.
Giornate passate a calpestarla per raggiungerla a piedi lungo strade sterrate e arrivato sulla ”nostra” terra, provvedevo ad accudirla innaffiandola e raccogliendo le più disparate prelibatezze (frutta d’ogni genere e olive e grano, orzo, fave, ceci e tanti ortaggi ed altro ancora), per non parlare di quello che ci donava “naturalmente” come cicoria, borragine, finocchio e ancora funghi, frutti selvatici (more, corbezzoli) e tanto, tanto altro.
Poi crescendo io ed invecchiando i miei, la terra è stata “dimenticata” come pure abbiamo dimenticato le tecniche di coltivazione e di mantenimento della stessa.
Spesso ho pensato come e cosa sarei stato oggi se, invece di aver percorso la strada fatta, avessi scelto di “dedicarmi” alla terra.
Oggi la cosa che mi manca di più è il profumo della terra rivoltata dall’aratro trainato dai buoi o dall’orto zappato a mano da mio padre; mi manca il contatto fisico con la terra, ed ogni tanto rivolto la terra dell’aiuola per appagare le mie mancanze.
Coltivo l’uliveto sulla terra che i miei ci hanno donato che solo in questi ultimi anni, forse proprio per la nostra incuria, ci ha fatto mancare il suo sostegno.
Sto cercando di educare i miei figli al rispetto della “nostra“ terra e spero e auspico che quando sarà il momento, loro sapranno rispettarla senza mai considerarla come se fosse di loro esclusiva “proprietà”.
Giuseppe Fiscina: In questi giorni di quarantena quante volte ho pensato alla terra: 10,20,50,100 mq, un ettaro o più. Quante volte ho pensato ad uno spicchio di terra, più o meno grande che sia, da poter calpestare delicatamente, ritrovare quel senso di naturale e di appartenenza, nel caso di terreno ereditato dai nostri nonni o dai nostri genitori. Alla fine ho capito che qualsiasi tipo di terreno uno abbia o qualsiasi uso uno ne faccia, che sia agricolo o edificabile, chiuso da una recinzione o libero da ogni barriera, è uno spazio aperto dove basta alzare lo sguardo per poter ancora osservare il cielo e tutto cio che lo circonda.
Carmine Fiscina: Dal mio modesto punto di vista vorrei tralasciare l’aspetto seppur importante del terreno dal lato strettamente immobiliare del bene, ma vorrei soffermarmi molto più sull’aspetto riguardante le tradizioni e i valori della terra. Oggi spesso tra di noi prevale il principio dell’apparenza rispetto a quello della sostanza, per questo siamo tentati a mettere da parte l’aspetto più profondo delle cose, fermandoci al mero aspetto superficiale. Con questo cosa voglio dire, che purtroppo oggi nell’era della disintermediazione, pensando ed in alcuni casi avendo a disposizione qualsiasi informazione a portata di “click”, stiamo tralasciando conoscenze e saperi frutto di anni di esperienze che presto non potremo più acquisire.
Liviano Mariella: Mio padre più volte mi ha detto, “è l’unica cosa da non vendere mai, la terra”, perché lo ritiene un bene essenziale, “serve, perchè dà da mangiare”; non solo, credo lo dica anche perché conosce bene la generosità della terra, e perché coltiva una profonda relazione con la terra stessa. Di questo ne ho fatto “eredità cognitiva”.
Mio nonno, in vita, non mi ha fatto la stessa domanda, però, generosissimo, di terra ne ha lasciata abbastanza in eredità, e io su una delle sue terre ho iniziato le mie coltivazioni. Neanche io ho grandi empatie con l’eredità in sé, ma se la mischio con altre cose del presente o del futuro mi trovo spesso nella situazione di entrare in gioco con questa cosa che viene dal passato.
E poi un pensiero fisso l’ho sempre avuto per chi invece alla terra non ha accesso e vorrebbe averlo, oppure ne avrebbe necessità, così come al fatto che conviviamo sempre nel mondo della proprietà privata. E nei tempi di grande fragilità e crisi economica che verranno, più gravi dei precedenti – da quella del 2008 abbiamo imparato già qualcosa – per evitare il diffondersi enorme del barbarismo sociale, della violenza, dell’uomo contro l’uomo, del dilagare di diseguaglianze, quello che possiamo – e credo dovremo – fare è ridistribuire, la terra come il cibo come la cura. Dovremmo trovare una relazione e un accordo tra terra, proprietà, necessità, economie; dei patti che su scala piccola solo possibili, come degli usi civici estesi sui terreni privati in abbandono, in abbondanza, nonostante si tratta di ribaltare storiche dinamiche culturali. Non serve che lo facciano tutti, non serve che sia un comportamento di massa, potremmo essere attrezzati per lavorare su piccole scale.
Anna Rizzo: Cosa ne faremo delle terre per il dopo? Credo che saranno divise e parcellizzate tra parenti o vendute. La pressione economica è talmente forte che se non hai una vocazione lavorativa nel lavorare la terra o saperla mettere a frutto è veramente difficile avere una resa economica sufficiente per mantenerti. Il capovolgimento che stiamo vivendo non farà altro che consolidare questa necessità, creerà un maggiore divario tra le città e le aree minori ancorate ad economie rurali o postagricole. Le città, comunque sia, ti offrono una rete sociale ed economica maggiore rispetto ai paesi. Il sostegno maggiore lo si potrebbe avere, nel condurre una vita agricola trovando l’appoggio della famiglia, creando economie familiari che riescono a ridimensionare i costi, avendo la fortuna di distribuire le specializzazioni tra parenti. Ma è raro. O c’è una continuità generazionale o convincere i genitori a una vita così radicale è difficile. Il fermo che stiamo vivendo, finora un mese, e probabilmente si protrarrà per altri mesi, comunque sia è un tempo troppo breve per tirare delle conclusioni, per parlare di cambiamento su questo piano. I cambiamenti maggiori saranno sulla conduzione della vita privata, sociale, sanitaria e lavorativa. Le piccole realtà rurali non erano nemmeno intercettate prima, figuriamoci adesso che avremo bisogno di maggiori spinte economiche sulla grande distribuzione. Chi coltivava prima lo continuerà a fare in maniera interstiziale rispetto ad altri lavori. Ma non aspettatevi che dalle città si torni in campagna. La terra promessa è un luogo mitico, biblico e teleologico.
Mimmo De Martino: La terra è una mamma pronta ad accoglierti nel suo ventre per farti rinascere a nuova vita di stagione in stagione. Era lì ad accogliermi piccolino seduto sulle gambe di mio nonno mentre guidava il trattore. È lì ad accogliere il mio sudore quotidianamente, a darmi sostegno e sostentamento. Lavoro per lasciarla sana e fertile in modo che possa accogliere al meglio figli e nipoti. Non è mia, non sarà loro. Siamo noi ad appartenere per pochi anni a lei che ci accoglie.
Riccardo D’Arco: 33 piedi di ulivi. Questo quello che i miei nonni, già loro figli di contadini ma contadini non più, mi hanno lasciato. Frutto di sudore e fatica in tempi in cui la società italiana era di stampo rurale, l’economia era basata sulla sussistenza e i contadini, stanchi ma mai depressi, erano asse portante del Paese. Con l’avvento del consumismo e dell’industrializzazione forzata abbiamo abbandonato gradualmente la terra per affollare frettolosamente le città. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un ritorno alla ruralità: un misto tra filosofia, fantasia e rivoluzione. Purtroppo manca l’economia e la possibilità diffusa di vivere esclusivamente con le produzioni agricole semplici (non intensive e non di nicchia) a meno che non si decida di cambiare stile, abbandonare il superfluo e stravolgere i modelli di vita: quello che siamo stati costretti a fare con la diffusone del Covid19.La terra dei nonni non si vende per ragioni antieconomiche fatte di orgoglio, memoria da onorare, piaceri da coltivare, ricordi da spolverare e radici da curare; ma si tratta, purtroppo, di un semplice ritorno romantico alla foto ingiallita e sbiadita di un mondo che non c’è più.
Antonio Petrocelli: Esistono due tipi di futuro per le terre dei nostri nonni: uno legato alla proprietà, l’altro ha a che fare con l’utilizzo che se ne fa. Se prima questi due aspetti erano fortemente legati, nel tempo hanno percorso binari diversi. Mentre il meccanismo di attribuzione delle proprietà fondiarie (per eredità) è rimasto invariato, le dinamiche sociali ed economiche del lavoro nei campi sono profondamente cambiate, cosicché oggi abbiamo da un lato terre abbandonate e dimenticate, dall’altro troviamo difficoltà di accesso alle terre per coloro che intendono lavorarle. Agricoltura è certamente cibo, ma anche paesaggio, manutenzione del territorio, identità, scambio di pratiche e conoscenze. Credo quindi che il futuro delle terre dell’Appennino si giochi anche nella capacità di individuare nuovi assetti fondiari collettivi, modelli di proprietà, uso e gestione, che sappiano riconoscere e restituire a chi lavora la terra, un ruolo di primaria importanza sociale, culturale ed ambientale, oltre che produttivo ed economico.
Daniela Cennamo: La terra… Cosa significa per me? Tutti parlano del legame tra la terra e i nonni, ma io? Mio nonno negli anni 30 e faceva il tassista a Piazza Gioacchino Belli e mia nonna la sarta dalle sorelle Fontana. Che c’è di più lontano di me, nata e cresciuta a Roma, a Trastevere, dalla terra? Eppure la voglia di concretezza si è tradotta in me nello studiare agraria e diventare divulgatore agricolo… E quando, ma vent’anni fa ormai, arrivai a quello che è il centro di sviluppo agricolo di Vallo della Lucania e trovai libri e le riviste della cattedra ambulante di agricoltura mi emozionai pensando di essere l’erede di quelli che giravano per le campagne insegnando come diventare agricoltori: la vera rivoluzione! Mi viene da ridere a ripensare a tanta ingenuità! Perché la rivoluzione oggi si fa insegnando ai ragazzini a guardare fuori dalla finestra e non solo dentro una scatola parlante. Ed oggi nei nostri piccoli paesi guardare fuori dalla finestra, ricordare un lavoro antico è da perdenti. La massima aspirazione è abitare e lavorare in un mondo lontano e pieno di lustrini. Oggi divulgare, insegnare, parlare di agricoltura non serve più e gli eredi delle cattedre ambulanti sono diventati dei tristi ragionieri davanti allo schermo di un pc. Siamo senza speranza allora? Non fin quando si insegnerà ai bambini a guardare con occhi nuovi fuori dalla propria finestra.
Roberto Simoni: Oggi ho finito di costruire un’ arnia per le api, volevo provare un modello di origine africana, piu’ semplice da costruire, che mira a meno raccolta di miele e piu’ salute delle api. Ecco un motivo per lavorare oggi e domani la nostra terra, tanto amore meno raccolta ma piu’ salute.
Matteo Bellegoni: Su un tema così importante ed emozionante ci sarebbe da scrivere quantomeno un trattato per darti una risposta, ma proverò, per quanto mi è possibile, a darti qualche breve suggestione. Per me la terra sono le mani di mia nonna, quelle stesse mani che tante volte si sono prese cura di me, che mi hanno accarezzato amorevolmente il viso, che mi hanno tenuto stretto quando avevo paura. Da bambino ho visto tante altre volte quelle stessi mani affondare come radici nella terra, tenere stretta una zappa, accarezzare le piante che crescevano dopo tanto lavoro. Ho visto tante volte la fatica scorrere sul volto di mia nonna e riempirle gli occhi di stanchezza, due fatiche che sommavano, prendersi cura di noi, della sua famiglia, e della sua amata terra. Mi ricordo una frase che mi ha assillato fino a pochi anni fa : “Ninò… a me me piasa troppo lavorae” (Bambino… a me piace troppo lavorare). Nel corso della vita questa frase l’ho ignorata, poi schernita, poi combattuta, fintanto che non si è depositata nel fondo della mia coscienza, come un seme piantato in una terra forse ancor troppo arida. Da adolescente, quando la vita cominciava a bagnare quella terra arida, quel seme si è trasformato in rabbia, perché ritenevo che quel rapporto fosse paragonabile alla schiavitù e un modo per sprecare quel poco tempo che ci è concesso di vivere. Tanta altra acqua ha bagnato la mia terra e tante volte sono state vere proprie tempeste e oggi posso dire a me stesso che sbagliavo profondamente. Non è il duro lavoro a renderci schiavi, è l’assenza d’amore nelle cose che facciamo, che a volte perdiamo o talvolta ci viene strappata, è l’assenza di consapevolezza, di connessione con la nostra storia e il nostro futuro, che ci rende piante senza radici dentro a un presente precario, senza ieri e senza domani. Oggi mia nonna è una pianta che sta pian piano sfiorendo, ma è circondata dalla cura e dall’amore che lei stessa ha coltivato per tutta la vita. Una persona conosciuta per caso d’estate a Pantelleria mi disse una frase che mi è rimasta scritta nella mente : “la terra ha una sua intelligenza…”. Oggi sono convinto che dobbiamo imparare nuovamente ad ascoltare quell’intelligenza perché può suggerirci come ricostruire un rapporto vero con ciò che è fonte della nostra storia e di vita, la stessa intelligenza che mia nonna, apparente ignorante e semianalfabeta, ha compreso e ha cercato di tramandarmi con poche parole e tanti esempi in carne ed ossa.
Carlo Mariella: Siamo ospiti di un grande giardino e continuiamo a non vederlo come tale. Purtroppo il labirinto cittadino maschera tutto ciò e forse questo è il motivo principale che ci porta sempre ad evadere, a ritornare, a crederci. Cerco di non allargare troppo il pensiero e di non allontanarmi troppo dalla domanda, cosa faremo di queste terre? In questo preciso istante non so rispondere, ma so certo che è necessario provare ad essere oggettivi. La terra deve essere accudita e se non possiamo farlo direttamente, dobbiamo semplicemente non permettere che venga maltrattata. Rovinare la terra vuol dire distruggere tutto l’ecosistema che ruota intorno ad essa/lei, ovvero valori, tradizione, sudore, passione e vita. Non tutti hanno la possibilità di occuparsi del proprio orto, ma si può semplicemente prendersi cura del giardino di tutti.
Silvia D’Ambra: Me lo chiedo ogni giorno in questo tempo sospeso. Cosa faremo di questa terra in mezzo al mare? Ma forse la prima è quella di conoscerla e riconoscerla nel suo “intimo”, una terra che ha un anima bollente, un corpo brullo ma mite, uno sguardo limpido come l’acqua che la circonda. E di certo noi isolani in passato vivevamo in simbiosi con questa terra e i suoi abitanti (abbiamo scavato cantine per produrre e conservare nelle montagne, come i conigli scavavano le gallerie,e’ folech, nelle viscere della montagna). La mia terra ha sempre accolto lo “straniero” e reso residente ( lo si vede nei dialetti o anche nella cucina). Questa pausa di riflessione ci deve fare “ascoltare” la terra e comprenderla per viverla in simbiosi come in passato. Questo non significa tornare indietro ma sintetizzare le conoscenze di oggi con quelle del passato. Ci. Quale strumento? L’agricoltura e si se riusciamo a mettere in equilibrio agricoltura e turismo abbiamo vinto la sfida
Antonella Mignacca: “U primu accatta, u secundu manteni, u terzu vinni” (Il primo compra, il secondo mantiene e il terzo vende) l’ho sentita molte volte da mio nonno questa frase, non l’ha mai detta con rassegnazione. I “farà tutto una brutta fine” di mio padre sono sempre suonati come una minaccia apocalittica, anche se si lamentava di essere solo ad occuparsi delle cose, infondo ci ha voluto tenere lontano dalla terra con scelte precise non insegnandoci niente di quello che conosceva. Alla sua morte la voglia di prendersi cura delle cose che prima ci veniva negata è stata forte, non per negare a noi stessi la sua minaccia, ma per un bisogno di amore per le proprie cose. Ora rimangono le distanze e pesa la mancanza di conoscenza, di relazioni familiari (Anna) insomma è una pratica non risolta ma aperta. Chissà che non troviamo delle nuove formule di gestione nuove. L’open source di Antonio Torre è qualcosa che mi fa pensare a qualcosa di nuovo (e magari tanto vecchio) che si può costruire.
Questo virus ci costringe a casa, in città quello che più mi manca e stare nella natura. Saranno i mesi trascorsi in aperta campagna con vista mare dello scorso anno, ma qui ora mi viene da invidiare chi può avere un pezzetto di terra, lavorare e sudare al sole.
Ti ringrazio per essere arrivato fin qua giù, questo che hai appena letto è
Un post-agorà
Una piccola ricognizione random sul rapporto con le cose che possediamo
Una sequenza di finestre che si aprono nella relazione che abbiamo con la terra che ci da(va) da mangiare
Adesso, per alleggerirti un po’ ti propongo un altro link, quello sulla Padronanza dell’Aria.
Si, per possedere veramente la terra e coltivarla devi esserne innanzitutto Padrone dell’Aria.